Pandemie liriche & Poesia oggi


Ogni tanto qualcuno si sveglia e decide di illuminare il mondo con una nuova teoria sulla
poesia italiana. Di solito succede di lunedì, tra un caffè e una crisi d’identità.

E così, eccoli: il giovane laureato multiplo che scrive saggi chilometrici su Instagram Stories, il barista radical chic che ti serve il macchiato declamando versi trap, e la bidella della scuola che, tra un mocio e un sacco dell’immondizia, rimugina sul suo prossimo articolo per “Poesia Oggi – la rivista che nessuno legge ma tutti citano”.

Il problema non è tanto che parlino, quanto come parlano: con la sicurezza di chi crede che citare dieci autori basti per rappresentare un Paese dove, secondo L’Espresso, scrivono poesie tre milioni di persone. Tre milioni! Praticamente una pandemia lirica.
E poi, perché limitarsi a otto editori quando ne abbiamo tremila (fonte AIE, che forse nemmeno loro ci credono più)?
Perché scrivere di poesia senza saper distinguere un endecasillabo da un taglio di capelli di Caparezza? Mistero.

Forse perché oggi tutti vogliono esserci: non importa se scrivi male, basta scrivere tanto — e soprattutto farti vedere. Così, ogni settimana nasce un nuovo “poeta contemporaneo”, armato di sciarpa oversize e foto in bianco e nero dove guarda il vuoto, pensando intensamente alla propria profondità, o alla prossima pufetta da incantare?

Umberto Eco, che di cervelli ne aveva visto parecchi, disse: “Con i social abbiamo dato parola a legioni di imbecilli.” E a giudicare da come vanno le cose, aveva appena letto una timeline poetica.

Dopo trent’anni di scrittura, mi fa piacere vedere i giovani avvicinarsi alla poesia con passione.
Quello che mi fa meno piacere è vederli atteggiarsi a rockstar dopo la prima plaquette autoprodotta. Capelli ribelli, pose da Lennon, e lo sguardo di chi ha appena rivelato all’umanità il segreto del verso libero (che poi è: non sapere contare le sillabe).

Intanto, in qualche gruppo elitario su Facebook, i nuovi sacerdoti della parola decidono chi potrà essere il “poeta dell’anno”. Sono sempre gli stessi nomi, le stesse rime, gli stessi a capo — pare un concorso di fotocopie emotive.
Ho persino conosciuto editori che modificano di loro pugno i manoscritti “per seguire la linea editoriale della collana”. Tradotto: facciamo in modo che sembri tutto uguale, così il lettore non si spaventa.

Cari autoproclamati critici, smettete di scrivere sulla poesia solo per pubblicizzare i vostri amici o le vostre edizioni casalinghe.
Scendete per strada, cercate la poesia sotto i ponti, tra i clochard, nelle parole storte e nei silenzi che non fanno rumore, magari proprio nei cessi delle scuole abbandonate.
Sporcatevi la lingua, sporcatevi le mani — e magari lasciate perdere le stories in cui spiegate cos’è la poesia, chi sono i poeti e chi vi ha insultato dopo l'articolo.

Perché, ve lo giuro, la vera poesia non sta nei vostri gruppi Telegram, né nelle call editoriali per “antologie generazionali”, neppure nei Vostri Poetry slam scrausi.
Sta ancora là fuori, dove nessuno guarda: sotto la polvere, tra le ombre, e — talvolta — nella bocca impastata di chi non ha più voce.
Liberate quell’usignolo. E fate cantare lei. Tutto il resto non conta.


Achab Di Nantucket

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